del 19 novembre 2000
FRONTIERE E IMMIGRAZIONE |
«Gorizia invasa dagli irregolari, ma la schedatura è ferma ad aprile» |
Gorizia NOSTRO INVIATO La porta della sala d'aspetto di seconda classe si apre, ed è come entrare in una sauna calda, ma carica di afrori. Una zaffata violenta tappa le narici, odori di uomini e di donne, odori di sudorazione, di sporcizia, l'odore del latte e dei bambini, sapori che vengono da lontano, odori di boschi intrisi di pioggia e di strade polverose e infangate, acidi di adrenalina che si scaricano quando la paura si materializza in una divisa da poliziotto o in un frontaliere pronto a chiedere un visto che non c'è. La sala d'aspetto della stazione ferroviaria di Gorizia è il luogo ove si raccoglie l'umanità dolente che ha passato il confine. Non quella che ha trovato rifugio sui furgoncini deipasseur o è riuscita a salire su un treno merci per continuare la grande fuga verso la civiltà con l'etichetta del clandestino senza via di scampo. Ma quella di chi si è assoggettato alla gogna del riconoscimento, delle foto segnaletiche, delle impronte digitali, e per ore è rimasto ammassato in uno stanzone della caserma "Massarelli" arredato solo con panche di noce, in attesa di uno smistamento degno di bestie in vendita o che vanno al macello. Davanti alla stazione, gli uomini - un vecchio con la tuta viola e una lunga barba bianca, un paio di giovanotti dalla pelle color del rame, due con vigorosi baffi neri e i capelli rasati a zero - stanno cercando una banca. Chiedono agli automobilisti, ai viaggiatori in arrivo, mentre cade un pioggia insistente. È per questo che nella notte Gorizia non ha assorbito il consueto carico di disperati, le montagne fradicie, i sentieri ridotti a torrenti, i campi simili a piscine hanno rallentato il flusso inarrestabile, come neppure i controlli umani riescono a fare. La biglietteria è quasi deserta, adesso. «Ma doveva vedere dieci minuti fa, ce n'erano almeno 25 in fila, con i soldi in mano e le sacche per terra» dice il ferroviere abituato al dialogo quotidiano in un esperanto frutto di un miscuglio di lingue il cui senso si trova più a gesti che a parole. Non c'è nessuno neppure all'edicola. «I bambini si fermano davanti ai giornaletti, ma poi le mamme li portano via». Nella stazione pulita e ordinata di questa città di frontiera, i clandestini non-più-clandestini non hanno neppure il bisogno di nascondersi. Stanno in attesa, con il biglietto e il foglio di via in tasca, in attesa del primo treno per Roma o Milano, mentre passano i poliziotti con il manganello e il sorriso cordiale: «Buoni, ooohh!». Questa non è una sala d'attesa, ma un "kindergarden", giardino d'infanzia, sala giochi, parco dei divertimenti, strada di paese dove i ragazzini lanciano le figurine contro il muro o sbattono per terra le carte seguendo regole indecifrabili. Una bimba di 5 anni, giacca in velluto rossa e gonna a quadri, trotterella da una panca all'altra. Un bimbetto di tre anni, tuta con cappuccio e scarpe da ginnastica, la insegue mulinando le gambine. In un angolo tre maschietti smanacciano vorticosamente assi di picche e di cuori. Un altro dorme sulle assi in legno. Uno si gratta il naso e mangia patatine. Un neonato si attacca alla mammella, gustandosi lo spuntino. Un altro se ne sta con il naso all'insù, beatamente abbandonato sotto i baci che la mamma gli stampa su guance e collo, come fanno tutte le mamme del mondo. Ci sono quindici bambini. E cinque donne. Una di queste annusa la presenza estranea e avvisa il piccolo branco. I ragazzini si allineano lungo le pareti, il pavimento viene sgomberato in un attimo, cinquanta occhi scrutano, inafferrabili. Sora (ma sarà il suo vero nome?) ha 27 anni, un profilo d'aquila, la pelle come la seta, e sta studiando l'inglese. «Afghanistan... Kabul... partita quattro mesi... a piedi eby car...». Conosce le parole essenziali, eppure le domande cadono in un vuoto studiato. «I don't know...». Non sa per quale confine è transitata, quali paesi ha passato, non sa quanto ha pagato per il viaggio («Ci pensa mio padre...»), non sa dove ha dormito («macchina... case...»), non sa chi l'ha aiutata, non ha visto città nè posti di frontiera, non sa dove sta andando, non sa dove vorrebbe vivere, nè quello che vorrebbe fare («Ci penso sempre, ma non so... E tu come potresti aiutarmi?»). Non sa cosa chiedere a questo Occidente che sta inseguendo come un'Araba Fenice da più di sedici settimane. Sa solo che ha camminato per dieci ore, poi è stata presa dai poliziotti, portata in una caserma, sfamata, dissetata, riscaldata. Le hanno fatto le fotografie e le hanno dato il foglio di via, 15 giorni di tempo per lasciare l'Italia. Ecco la spiegazione della smemoratezza. Dovesse dire dove è entrata, potrebbero rispedirla in Slovenia. Dovesse dire dove sta andando potrebbero contestarle il mancato rispetto dell'ordine di valicare, in senso contrario, le frontiere il cui attraversamento le è costato migliaia di marchi. In realtà il "foglio di via" è un lasciapassare. Ìl prefetto lo firma, ma sa che non respinge nessuno, consente anzi all'indesiderato di andare dove vuole. Sono mesi che il sindacato di Polizia denuncia il confine-colabrodo. Parole attuali proprio oggi che a Roma dicono di voler prendere le impronte a tutti gli extracomunitari. Angelo Obit è segretario provinciale Sap, ha impacchettato le frontiere per protesta e snocciola un rosario di lamentele. Il clandestino finisce alla "Massarellli". Nessun controllo sanitario, nessun intervento di organizzazioni umanitarie, solo la Polizia a fare da semaforo sul crocevia del nulla. Al clandestino devono fare la foto e prendere le impronte. Fino a una settimana fa c'era un solo apparecchio, tempo richiesto 4-5 minuti ciascuno, adesso ne è arrivato un altro. Per smaltire le 100 persone quotidiane servono 7 ore. Poi si presenta agli Sloveni la domanda di riaccettare i clandestini, ma senza prove certe del passaggio (mica possono essere piovuti dal cielo a cento metri dalla dogana...) il diniego è assicurato. Il 6 per cento torna di là, il rimanente compone l'esercito dei "rintracciati", roba da statistiche. Ecco allora il decreto di espulsione, due settimane per andarsene. Con quel foglio l'extracomunitario va in stazione e prende il treno. E la schedatura? «Questo è il punto - spiega Obit - siamo in arretrato di 9 mila cartellini!». Il conto è facile. L'invio telematico di foto, impronte e dati all'archivio centrale di Roma richiede dai 12 ai 15 minuti per ogni cartellino. Cinque all'ora, al massimo 60 al giorno visto che il servizio è aperto dalle 8 alle 20 (solo nei giorni feriali, ma la linea si interrompe spesso). «L'arretrato è enorme, siamo fermi ad aprile». Un Mohamed qualsiasi entrato a Pasqua si trova già da sei mesi in qualche parte d'Europa, ma i suoi dati non sono ancora a Roma. Anche se lo prendono, non sanno chi sia e da dove sia entrato. È per questo che Sora se ne sta seduta tranquilla, in attesa del treno per Venezia. Arriva suo padre (quello con la tuta viola) con i biglietti. Il gruppo si alza, i bambini più grandi tengono per mano i piccoli. Sottopassaggio, mentre una poliziotta bionda controlla. Il capo degli afghani si fa spiegare come obliterare poi, forsennatamente, punzona i biglietti per Milano con supplemento Intercity. Arriva il treno delle 16. Salgono i pendolari. E salgono i clandestini ormai non-più-clandestini. I vagoni si muovono lentamente. Il viaggio continua. Giuseppe Pietrobelli |