del 18 novembre 2000
REPUBBLICA
GORIZIA
Un
colabrodo? Sbagliato: Gorizia è un imbuto. Fra il Baltico e Otranto non esiste
niente di simile. In un luogo dove i residenti devono mostrare i documenti dieci
volte al giorno solo per spostarsi da un rione all'altro, i clandestini vanno e
vengono come vogliono. Una volta arrivavano nascosti nei camion di ghiaia a
doppio fondo. Oggi, da quando son finiti i bombardamenti sulla Jugoslavia,
arrivano in macchina e persino in treno, anche in pieno giorno. Sono i più
disperati, quelli senza i soldi per organizzarsi un viaggio nascosto. Molti sono
stati gabbati, non sanno nemmeno di entrare in Italia, confondono la Slovenia
con la Slovacchia. Ma tutti scendono, camminano trenta metri, fanno un salto
veloce e passano oltre.
Ore 20.10, vecchia stazione asburgica della ferrovia
"Meridionale". Un treno si ferma nel diluvio dentro un puzzo bestiale
di diesel. Tre ragazzi sbucano sotto la scritta "Postaja", stazione,
escono dal cono di luce giallina, fanno un giro diversivo attorno all'edificio,
poi oltrepassano la strada, aggirano la casetta dell'ufficio tecnico
ferroviario. Son talmente svelti che non fai quasi a tempo a vederli volar
oltre, nel punto in cui l'inferriata bassa confina con una rete orlata di filo
spinato. Si dileguano come un commando, leggeri, senza un rumore, senza una
parola. Non li vede nessuno, ma i cani nelle villette italiane li sentono
eccome. Abbaiono, fiutano l'adrenalina.
Nella piazzetta torna un silenzio surreale. Ai tempi del Grande Freddo era altra
musica. Alla gente in fuga - in gran parte dissidenti politici - i militi
jugoslavi gridavano quel terribile "Stoj!", alt, e se ti beccavano eri
fritto. Oggi fan finta di niente. La polizia slovena sa che il Paese scoppia di
rifugiati nei campi di raccolta, e che più se ne vanno e meglio è. "Il
mio è un Paese fondato sul contrabbando - raccontava nel pomeriggio un vecchio
cacciatore sloveno - e quello di persone è il più redditizio di tutti. Con
cinque, sei passaggi al mese guadagni già il doppio di un poliziotto. Facile
comprare il silenzio".
Ore 20.35, in una pausa della pioggia altre sei ombre volano oltre la rete, una lascia sul ferro un pezzo di giacca scura. La terza è una donna: passa un bambino in fasce a quelli che sono già dall'altra parte. Turchi d'aspetto, forse di etnìa curda. Il gruppo si nasconde accanto a un muro, dietro a un arbusto, la donna cambia il pannolino al bambino. Il piccolo non piange, lei sì. Un uomo la fa tacere. Hanno paura, i cani continuano ad abbaiare nella pioggia, ma almeno la polizia italiana non c'è. E' allo stremo, sommersa dagli arrivi, travolta dall'enormità di un problema umanitario che sottrae forze preziose alle indagini contro i trafficanti. Gli agenti sono lì, al centro di raccolta, fanno i baby sitter, gli assistenti sociali, gli ufficiali anagrafici. "Durezza? Quando sei davanti a venti bambini, cosa fai? Spari?" No, impossibile tirarsi indietro, se il resto dello Stato non c'è.
La rete di Schengen è piena di brandelli di queste identità perdute, finite nel tritacarne che sradica e ti perde. In venti metri trovi: una ciocca di capelli, la scarpa di una bambina numero ventidue, un pezzo di camicia, un fazzoletto da donna, un biberòn, due calze di lana fradicie tra le foglie gialle, un soldatino di plastica. Unica assenza, le sigarette: questo è un posto dove nessuno si ferma. Un chilometro oltre, al piccolo confine rurale del Rafut c'è persino un albero trasformato in spogliatoio. Un noce robusto, con le radici ricoperte di cose. Ricorda Pinocchio, la sua notte di fuga, il grande imbroglio della vita.
Otto anni fa - quando An era ancora il vecchio Msi e la Slovenia ancora il nemico - Gianfranco Fini venne a Gorizia a dire che quella era la rete della vergogna e che bisognava picconarla come il muro di Berlino. Oggi, il suo partito e il resto del Polo, al governo nella regione, vorrebbero rinforzarlo quel muro, mandarci l'esercito in armi. Ma la polizia lo sa: qui non servono esibizioni di muscoli. Servono indagini contro i trafficanti. "Il passeur - ti dicono gli agenti - ti frega sempre, conosce ogni centimetro del terreno. Figurarsi coi soldati di leva. Questa non è una guerra di trincea: si vince nelle retrovie, con le intercettazioni".
Così, appena si spegne il silenzio dei proclami, appena scende la notte e il tuo sguardo incrocia per un attimo l'energia disperata di quegli occhi in fuga, subito ti accorgi che non c'è niente da fare: quelli non li blocca nessuno. Le ombre di oggi sono un fiume che segue un alveo millenario, la stessa strada dei Longobardi e dei barbari alla fine di Roma, la più facile per passare le Alpi da Oriente, attraverso la breccia maledetta, il varco strategico che si chiama Gorizia. Non li ha mai fermati nessuno, in questo posto dove le nazioni hanno bruciato centinaia di migliaia di vite per marcare il territorio di reticolati e bandiere. Nemmeno quando la città fu tagliata dai cavalli di frisia e i cani lupo di Tito latravano sulle colline.
Tuona sui sacrari della Grande Guerra, lampeggia sopra la chiesa illuminata di Monte Santo, sospesa a mezz'aria. Ore 21.15, un rumore verso l'altura di Castagnevizza, un altro gruppo salta all'altezza di via Percoto, parallela all'inferriata. Li vedi eccome, ma è come se non ci fossero. Alle Tv non interessano, qui non ci sono navi a far spettacolo in mezzo al mare. E poi Gorizia non è la Puglia. E' un non-luogo che gli italiani non sanno collocare sulla mappa. Un posto schiacciato dai totalitarismi, abituato a subire il confine, non a farlo fruttare. Così, oltre questa stupida frontiera senza terra di nessuno, è come se la città dimezzata, costellata di luci fioche e percorsa da ombre senza nome, fosse interamente diventata una triste, silenziosa terra di nessuno.
Ore 22: passa una pattuglia della polizia, e subito altri dieci ombre sbucano dalla pioggia. Seguono meccanicamente istruzioni avute da altri. Cercano sulla rete un punto preciso, segnato da un tessuto giallino, poi saltano nel buio. Piove che dio la manda, ma non se ne curano: almeno qui non si annega, non ti buttano dai gommoni. Andargli dietro è facile, passiamo anche noi, tanto non c'è anima viva e i buchi nella rete lasciano solo l'imbarazzo della scelta. I dieci lasciano una scia di odore forte, i cani ridiventano nervosi. Appena oltre, i dieci si tolgono di tasca un pezzo di carta bianca - la "Spremni List", il foglio di riconoscimento sloveno - e lo sbriciolano minuziosamente per distruggere la loro identità. Cento metri oltre c'è un tale che li aspetta con un sacco pieno di vestiti nuovi. Raccolgo le briciole bianche, leggo brandelli di nomi persiani, forse iracheni.
E questo è solo il traffico che si vede, la punta dell'iceberg. Figurarsi quanta notizia, da questa periferia dell'impero, può fare quello che non si vede. Tutte le questure del Nord Italia, per esempio, sanno che le prostitute dell'Est arrivano in maggioranza da questo confine. Ma le nuove schiave non saltano la rete: passano i boschi in gruppi organizzati, scortate da passeur armati e carichi di anfetamine. Si sa persino che partono dallo stesso luogo, un villaggio di nome Opatje Selo. Ma non le intercetti mai: la mafia nasconde bene la carne preziosa. Un cinese vale venti milioni e si recapita "door to door". La carne che non costa niente, invece, passa alla disperata da qui. Una processione di ombre che ti entra in casa per farsi medicare, ti chiede del pane, finisce nelle questure, sbattuta sui giornali. Sono loro, i più innocenti, a mobilitare le ronde, a far esplodere l'allarme sociale. Il traffico mafioso, invece, nulla. Resta invisibile, ipocritamente ignorato.
Il signor Roberto Rosso, un pezzo d'uomo che gioca a basket, abita in una villetta in prima linea, di fronte alla vecchia stazione. La rete a pezzi se l'aggiusta da sé; tanto, il Genio Civile non viene mai. E quando becca dei disperati in fuga, magari li nutre, li cura. Poi chiama la polizia. "Mi sono reso conto che è il vero aiuto è il 113. Per loro è meglio. Almeno si rifocillano". E poi, hanno quel foglio di via che consente di restare in Italia altri quindici giorni, e magari di filare all'indiana in altre terre dentro lo spazio di Schengen, per ripresentarsi davanti a un'altra polizia, di nuovo senza documenti di identità. "Li sento passare ogni notte, quando Arturo abbaia". Non ha mai paura? "No, ma ansia sì. Sento che questa è una cosa che ci cambierà la vita, l'identità. Guardo i mei figli e temo che domani non ci sarà più niente di quello che hanno seminato i nostri padri".
Lena Tomasi abita da cinquant' anni al numero 31 di via Foscolo, a tre metri dalla rete e, se potesse, li aiuterebbe tutti quei poveretti. "Una volta - racconta - scappavano in pochi, e ricevevano asilo. Oggi li prendono e li mettono al muro. Mi viene una stretta al cuore. Penso sempre a una cosa: se hanno lasciato la loro casa, la loro terra, vuol dire che stanno davvero male".