del 16 febbraio 2001
CRONACA DI GORIZIA
Gli agenti: «La Lega ha ragione»
I sindacati di Polizia criticano Roma per la mancanza di uomini e mezzi
I sindacati di Polizia condividono, almeno in parte, le affermazioni polemiche della Lega sull’arrivo del nuovo questore, il dottor Mulas. Come riferivamo ieri, il Carroccio sostiene che la brillante carriera del questore potrebbe finire proprio a Gorizia, «ma non per colpa sua, bensì perché lo Stato non lo aiuta». In Questura, a detta della Lega, manca un adeguato supporto di uomini e mezzi. Ebbene, il Lisipo (Libero sindacato di Polizia), per iniziativa del presidente nazionale Luigi Ferone, concorda pienamente con il Carroccio «per quanto concerne – si legge in una nota – lo scarso impegno del ministero dell’interno di fronte all’emergenza-clandestini a Gorizia». Il Lisipo è dell’avviso che il capoluogo isontino era fra le province più tranquille d’Italia e che le forze di Polizia erano strutturate per affrontare quella situazione. «Oggi, con la quotidiana fiumana che da ogni parte del mondo si riversa in Italia proprio attraverso il confine del Nord-Est, le cose sono cambiate di molto, mentre gli organici e i mezzi – continua Ferone – sono rimasti gli stessi. Il ministro dell’interno Bianco ha promesso tanto a Gorizia e in tutto il Nord-Est, ma di concreto – rimarca il Lisipo – si è visto molto poco, praticamente nulla». A detta del sindacato, eventuali inefficienze non si possono far ricadere sul questore o sul personale, «ma i responsabili sono la politica della sicurezza pubblica posta in essere dal ministro Bianco e la legge Turco-Napolitano, totalmente inadeguata. L’ottimo questore D’Acierno ha fatto del suo meglio, ma cosa ha fatto il ministero per aiutarlo a fronteggiare una situazione nuova, come quella dell’immigrazione clandestina? Il Lisipo – conclude Ferone – si augura che il nuovo questore abbia aiuto e supporto dal "centro", cose che il suo precedessore non ha avuto».
Il Sap (Sindacato autonomo di Polizia) ribadisce la propria fiducia al dottor Mulas, ma sostiene che il ministero dell’interno «non si dimostra un attento ascoltatore di questa parte del territorio: sono passati due mesi dalla visita del ministro e del capo della Polizia e tutto è rimasto immutato. Mancano uomini e mezzi e anche le tanto annunciate pattuglie miste – a detta del segretario provinciale, Angelo Obit – anziché essere estese sembrano dissolversi all’orizzonte. Di quanto detto dalla Lega, non condividiamo unicamente l’asserzione secondo la quale "gli operatori del 113 supplicano i cittadini di non segnalare i clandestini", in quanto la Polizia si è sempre avvalsa e si avvale anche di tali segnalazioni per la propria attività. Gli operatori del 113 sono professionalmente preparati per fornire risposte adeguate alle esigenze della cittadinanza».
Trenta i volontari che vi operano, divisi in tre turni
giornalieri. Disponibili anche quaranta posti letto
Primi clandestini nel centro Caritas. Sono arrivati ieri pomeriggio nell’ex
collegio San Giuseppe. Anche una piccola di 3 anni
Ore 13. Un pullman della
polizia si ferma davanti al portone dell’ex collegio San Giuseppe. Ne scendono
i trentacinque clandestini che per primi usufruiranno del nuovo centro d’accoglienza
della Caritas. Iracheni, turchi, afgani. Otto i bambini, la più piccola è una
piccola di appena tre anni. Dalla stazione ferroviaria di Monfalcone, dove sono
stati fermati, sono stati portati alla questura di Gorizia e, di qui, al centro
di San Rocco. Quando è arrivata la chiamata degli agenti, alcuni volontari
stavano ridipingendo le pareti del pianoterra. Subito è partito il "tam
tam" di telefonate per radunare quante più persone possibile per
accogliere con calore e umanità queste persone sfortunate. E mentre gli operai
continuano a lavorare, i volontari distribuiscono il cibo: gnocchi (ma in pochi
li hanno toccati), arrosto e patate arrivati dalla cooperativa di Cormòns,
ingaggiata per la fornitura dei pasti e allertata dalla questura stessa.
Ore 15. A gruppi i clandestini vengono condotti in questura per la fotosegnalazione, mentre nella mensa dell’ex San Giuseppe lasciano le donne e i bambini. Un’auto della polizia, parcheggiata nella piazza, piantona il portone per assicurarsi che a nessuno venga l’idea di scappare. «Rimarranno qui fino a stasera e, d’ora in poi, il centro sarà aperto ventiquattr’ore al giorno» spiega Enrico Furlanut, responsabile del centro ed eletto con un plebiscito "capo" dei volontari.
Visitiamo dunque lo stabile. Al pianoterra si dispiega la "zona giorno": la mensa, con alcuni tavoli disposti a ferro di cavallo di fronte a un bancone da bar, la cucina e, fra i due locali, una seconda sala pranzo ancora in allestimento. Un piccolo corridoio luminoso collega questi ambienti all’ingresso. Qui, sulla sinistra, si trova la stanzetta per i volontari. «Per ora siamo circa in trenta e ci divideremo i tre turni giornalieri in modo da essere sempre almeno in due», spiega ancora Furlanut. Saliamo. Il primo piano, già pronto, è ancora chiuso ma sarà speculare a quello superiore: cinque stanze con letti singoli incassati negli armadi, un bagno rosso e grigio con docce.
Quarantuno i posti letto disponibili complessivamente, ma durante il giorno al centro Caritas potranno essere accolte fino a settanta, ottanta persone.
«Le persone che verranno portate qui nelle ore diurne si fermeranno il tempo necessario per espletare le pratiche, quindi cinque, sei ore al massimo. Se arrivano entro le 18 possiamo ordinare il pasto e far trovare qualcosa di sostanzioso, altrimenti si devono accontentare di quello che abbiamo qui: latte, tè, biscotti. Le persone che arriveranno di notte, invece, dormiranno qui e la mattina dopo verranno portate in questura», spiega ancora Furlanut.
Eravate attrezzati oggi per accoglierli? «Certo – prosegue
il responsabile del centro –. Abbiamo distribuito vestiti, scarpe e peluche
per i bambini. Eravamo stati allertati dalla questura in modo da essere pronti
in questi giorni».
Non c’è tempo per chiedere altro: il viavai di operai e volontari ricorda che
ormai il nuovo centro Caritas lavora a pieno ritmo.
Eliana Mogorovich
Non abbiamo paura, se ci sono gli agenti»
Parla la gente di via San Gabriele, dove passano i clandestini. «Suscitano
compassione più che timore»
Le pattuglie all’angolo della strada, così come le ombre sfuggenti nella
notte, sono presenze consuete per gli abitanti di via San Gabriele.
Agli uni e agli altri la gente sembra aver fatto l’abitudine e in molti
liquidano l’argomento con un gesto della mano, con un sorriso di circostanza
(o forse di rassegnazione), tutt’al più con un "no comment".
L’impressione è quella di trovarsi in un quartiere a sé stante, una zona che vive la sua quotidianità cercando di non fare troppo caso ai tanti drammi umani e alle molte azioni degli uomini delle forze dell’ordine proprio lì, a due passi dalla Transalpina e dal confine con la Slovenia.
La questione dei clandestini è all’ordine del giorno per tutti a Gorizia, ma a San Gabriele ancora di più per la vicinanza con la frontiera. Nonostante questo, non è la paura il sentimento che si respira fra quei palazzi, abitati per lo più da molti anziani e da nuclei familiari con bimbi in età scolare.
«C’è bisogno di un controllo costante, questo è certo – afferma Michela De Castro –, ma non ricordo che ci siano stati episodi di delinquenza a opera dei clandestini di passaggio. Sono preoccupata in misura ragionevole, nel senso che, finché è garantita la presenza della polizia, mi sento abbastanza tutelata».
«Anch’io, come tutti qui, – continua Michela – i clandestini li ho visti, specie negli ultimi mesi, anche se ora il flusso mi sembra molto minore. Però si tratta di presenze fugaci, sempre di fretta. Tutt’al più ci chiedono se sono già in Italia e quale sia la strada più breve per raggiungere la stazione. Suscitano compassione e solo raramente timore, perché fra loro ci sono sicuramente anche tipi poco raccomandabili, ma non si può dire che siano la maggioranza».
Sono in tanti a pensarla nello stesso modo al San Gabriele, rassicurata soprattutto dalla presenza quasi costante delle volanti della polizia.
«Nei periodi di maggior flusso, quando vedevamo passare sotto le finestre anche gruppi di quaranta persone, c’era una pattuglia 24 ore su 24 all’incrocio e non si allontanava mai. Lo zelo degli agenti lo abbiamo constatato più volte di persona, quando noi residenti o nostri amici e conoscenti sono stati fermati dai poliziotti con il mitra spianato, che davano l’alt per verificare le nostre generalità».
A dirci questo è Sabina Nicolella, una delle poche studentesse che abita al San Gabriele. Originaria di Genova e "trapiantata" a Gorizia per motivi di studio, Sabina non nasconde che nella nostra città ha sentito subito un certo clima di diffidenza tra la gente verso gli estranei, anche in questo quartiere.
«Nella nostra strada – dice ancora – l’atteggiamento un po’ difensivo delle persone va anche collegato al fatto che gran parte dei residenti della zona sono anziani e sono un po’ chiusi nei confronti degli estranei. Basti pensare che quando mi sono trasferita qui, anch’io ho dovuto vincere il timore dei vicini».
Quello dei clandestini è e rimane dunque un problema grave, palpabile nella vita quotidiana, legato anche alla sicurezza dei cittadini, ma non sembra che in via San Gabriele il timore sia più diffuso che altrove, almeno fin quando le forze dell’ordine continueranno a essere presenti.
Francesca Pozzar
La drammatica storia di Hussein: «Uccidetemi, ma non torno in Iraq»
Eccoli arrivare con i loro occhi scuri e profondi, i volti rassegnati e molto
stanchi. Non appaiono affatto come persone da temere.
I volontari li hanno sistemati nella mensa in attesa che
vengano accompagnati in questura dalla polizia. «Si figuri: hanno pure
sparecchiato. Altro che gli italiani...» dice una volontaria della Caritas,
mostrando il sacco nero con i resti del pranzo.
Iracheni, afgani e turchi: non si riesce a distinguerne la provenienza dalla
fisionomia dei volti. Non conoscono l’italiano, ma si fa largo una voce che
chiede se ci sia qualcuno che parla l’inglese. Offrono una sedia di fianco ad
alcuni uomini che dormono, il capo appoggiato sul tavolo. Uno di loro inizia a
raccontare la sua storia ripetendo più volte che la sua vicenda è quella di
tutti gli altri.
Hussein, quarant’anni, viene dall’Iraq. È un curdo che ha deciso di
abbandonare il suo paese assieme alla famiglia: la moglie, tre bambini e
ottomila dollari pagati per venire in Italia a bordo di un camion.
Chiede se da noi si sa qualcosa della situazione in Iraq e, per renderla più attuale, si alza, toglie il giubbotto e solleva la manica del maglione. Una fascia avvolge il gomito sinistro di Hussein, una ferita riportata nel 1982 ha mandato fuori sede un osso e per potersi curare ha venduto tutto quello che aveva. «Siamo stati tutti costretti ad abbandonare il nostro Paese, per motivi economici o politici. Nessuno di noi vuole rimanere in Italia. Qui stiamo cercando solo umanità».
Umanità significa spiegare a Hussein perché lui e gli altri
devono essere fotografati per non essere espulsi; il che significa tornare nei
paesi d’origine ed essere forse uccisi. «I poliziotti qui hanno la pistola: a
uno di loro ho detto di usarla per ammazzarmi qui piuttosto che fare questa fine
in Iraq, lo preferisco». Vorrebbe raggiungere la Francia, Hussein, o l’Inghilterra
e implora: «Lei è una giornalista? Contatti qualcuno delle Nazioni Unite e lo
mandi qua, così gli spiego la situazione».
Intanto arrivano i poliziotti: difficile spiegare che ora gli uomini, pochi per
volta, dovranno seguire gli agenti per la fotosegnalazione, primo passo per
quell’espulsione che tanto temono. Nella mensa restano i bambini con le loro
madri. Si cerca qualcosa per far loro passare il mal di testa: i volontari si
mobilitano mentre i piccoli, spauriti, stringendo gli orsacchiotti, passano dal
giardino all’ingresso dal centro.
E.M