del 07 aprile 2001
Tragica scoperta in un bagno del centro d’accoglienza per
immigrati illegali della Caritas: Alì Bolukbas, 20 anni, era appeso alla
catenella dello sciacquone
Gorizia, giallo su un curdo trovato impiccato
Al vaglio sia l’ipotesi di suicidio sia quella d’omicidio. Fermato un
iracheno: in tasca aveva un documento del morto
Ha ucciso Alì Bolukbas per impossessarsi della sua identità? Oppure un susseguirsi di equivoci, disattenzioni e disguidi ha tramutato un suicidio in giallo? La magistratura ha 48 ore dall’emissione del provvedimento restrittivo per richiedere o meno la convalida: una corsa contro il tempo cercando un interprete capace di dialogare con Haci. Sempre che l’iracheno non tanto si esprima in un particolare dialetto marungi, ma stia attuando un’autodistruttiva linea difensiva basata sul mutismo. Con il risultato che a ieri sera il sostituto procuratore Massimo De Bortoli non era stato posto in grado di interrogare il clandestino.
Un groviglio di indizi e sospetti, dunque. Un mistero che ha inizio alle 6, in stazione, quando 37 clandestini curdi - tra i quali Alì Bolukbas - vengono fermati dalle Volanti. Alle 7.40, invece, è una pattuglia della polfrontiera a intercettare, in corso Verdi, 13 iracheni (10 uomini e tre donne). Tra loro c’è Yusuf Haci. Entrambi i gruppi vengono accolti al Centro Caritas da dove, a piccoli gruppi, vengono portati alla caserma Massarelli per l’iter del fotosegnalamento. Ultima tappa nuovamente al Centro dove attendono l’«appello» e la consegna del decreto di espulsione. I clandestini non hanno fretta: attendono quel documento firmato dal questore che, di fatto, per 15 giorni diventa il loro «lasciapassare» verso il resto d’Europa. Più sono i clandestini, maggiore è l’attesa. Nel frattempo, grazie ai volontari Caritas, possono rifocillarsi, lavarsi, riposare.
Il nodo del mistero è tra le 19.30 e le 20.30 quando, secondo un primo esame esterno del medico legale, avviene la morte di Alì. A questo punto finiscono le certezze e si sdoppiano le ipotesi investigative della squadra mobile. Volendo avvalorare la tesi del suicidio, la ricostruzione vede un ragazzo di soli 20 anni in fuga dalla povertà sopraffatto dallo sconforto. Ha compreso che ha attraversato il confine Schengen, ma il suo viaggio verso la Germania è ben lontano dalla conclusione. Non ha più denaro (al momento della perquisizione gli è stato trovato solo il passaporto), realizza che gli affetti sono lontanissimi e il futuro diverso dalle promesse. Si apparta nel bagno, chiude dall’interno la porta, si cinge attorno al collo la catenella e si lascia cadere.
Nella stanza accanto, ignari del dramma che sta maturando, i volontari stanno partecipando a un incontro formativo. Sarà un ragazzino di 16 anni a notare, poco dopo le 22.30, l’assenza di Alì e scoprire il corpo, scavalcando un’intercapedine. Nello stesso momento si nota la sparizione dell’iracheno che, dopo un’affannosa ricerca, alle 23 viene bloccato in stazione. Yusuf Haci ha assunto l’identità di Alì Bolukbas prima o dopo la morte del curdo? E quella morte è stata una drammatica scelta o un omicidio?
Don Ruggero Dipiazza e i volontari dinanzi alla tragica morte
del giovane curdo
Centro Caritas, una prova durissima
«Per chi si spende aiutando i clandestini è un gesto che ti
ammazza dentro»
Il Centro Caritas, la mattina dopo. Un senso di impotenza travolge gli animi di quanti ogni giorno si spendono per questa umanità in fuga. Il dramma di un ventenne che decide di rinunciare al futuro è anche questo: una prova, durissima, per gli uomini e le donne che ogni giorno decidono di spendersi per gli altri. Sono i volontari che da un mese e mezzo hanno accolto con entusiasmo la sfida di don Ruggero Dipiazza e del «suo» centro d’accoglienza. Hanno diverse età e i loro volti raccontano storie differenti, ma tutti sacrificano parte del giorno e della notte perché accomunati da valori di vita e di fede. Sono la testimonianza silenziosa e discreta delle potenzialità positive dell’animo e dei sentimenti umani. Un coinvolgimento che diventa sofferenza nel pensare a quel giovane curdo che decide di chiudere con la vita, migliaia di chilometri dai suoi affetti, schiacciato tra sogni e realtà. Fino a decidere, in un piccolo bagno di una città della quale prima probabilmente non conosceva neppure l’esistenza, che è più difficile vivere che morire.
Il Centro Caritas, la mattina dopo. Volti e silenzi smarriti di chi, nell’accudire l’ennesima ondata di clandestini, cerca di nascondere dubbi e ferite che lacerano l’animo. Una prova nella prova di un Centro che in un mese e mezzo ha già accolto, sfamato e curato oltre 800 immigrati. Per poi vederli ripartire verso chissà quali mete e futuro. Per i volontari è già difficile prendere in considerazione un suicidio, del tutto improponibile l’ipotesi di un omicidio.
«Nonostante la serenità e la consapevolezza di aver fatto quanto umanamente possibile, in tutti noi è grande il dolore e l’angoscia dinanzi al dramma umano di un ragazzo - spiega don Ruggero Dipiazza - Ogni giorno ci colpisce il silenzio di decine e decine di persone che, come in un limbo, attendono la loro sorte. Silenzi che celano la sofferenza di chi ha appena compreso di essere solo all’inizio di un viaggio, tanto da ritrovarli a scrutare la carta ferroviaria, con tutte le direzioni e le tariffe, come fosse il pozzo di San Patrizio. I volontari cercano di spezzare quella catena di silenzi ponendo attenzione anche alle piccole esigenze, siano esse le sigarette per gli aduli o un giocattolo per i bimbi».
«Ogni giorno viviamo un’ordinaria follia in un via vai incessante di clandestini. Poi, all’improvviso, un ragazzo decide di uccidersi. Un gesto disperato che ti ammazza dentro. - conclude don Ruggero Dipiazza - Ti chiedi cosa avresti potuto fare, cosa avresti dovuto dire per ridurre quella disperazione. Interrogativi che non hanno risposte, proprio perché è quanto fanno i volontari è già tanto, tantissimo».
Il Centro Caritas, la mattina dopo. Vissuto lo choc del suicidio, come assimilare e superare il dramma nel delicato equilibrio del volontariato? Come inciderà un evento così emozionalmente forte, nell’impegno di quanti rinnegano una società distratta, soprattutto verso i più deboli? L’attenzione deve essere rivolta anche a loro. Non erano neppure le 7.30, ieri mattina, quando l’arcivescovo Dino De’ Antoni - dopo essere stato informato telefonicamente dell’accaduto - si è presentato all’improvviso nel centro di piazza San Rocco. Una visita non prevista e scevra da formalismi. Un raggio di conforto a quei volontari, e di commosso affetto per un ragazzo straniero che a vent’anni ha concluso la sua sfida di vita a Gorizia.
Roberta Missio