del 4 novembre 2000

 

CRONACA REGIONALE

 

Alcune foto documentano per la prima volta le condizioni inumane a cui sono costretti gli extracomunitari dopo la cattura

Dentro la «Massarelli» una bolgia dantesca


GORIZIA - Sono le foto della vergogna. Così la caserma «Massarelli», attigua al valico della Casa Rossa, non era mai stata vista. Da tempo i sindacati di polizia denunciano all’unisono l’emergenza cui sono sottoposti gli appartenenti alle forze dell’ordine, un’emergenza che li svuota dalle funzioni di polizia e li sovraespone a rischi sanitari. Finora l’ingresso alla «Massarelli» è stato negato agli organi d’informazione. Semaforo verde per agli organismi di volontariato, rosso per gli obiettivi indiscreti delle macchine fotografiche. A far luce sulla trasformazione di una caserma in precario centro di accoglienza è il Sap attraverso il cui segretario provinciale, Obit, «Il Piccolo» ha acquisito alcune immagini scattate nella struttura. Uomini ammassati, sdraiati a terra senza coperte o distesi su banchi tramutati in letti. Una stanza con le finestre chiuse per motivi di sicurezza. Ma anche un garage (poi chiuso su diffida del Sap) trasformato in ricovero per centinaia di clandestini. Immagini nelle quali è difficile vedere la civiltà di un Paese.

 

 

Viaggio lungo il confine tra Italia e Slovenia che divide in due la città, dove a ogni ora del giorno e della notte decine di immigrati scavalcano le reti
Gorizia, il clandestino nel giardino di casa

I residenti ormai convivono con l’emergenza: «Non disturbano, al massimo chiedono di fare una telefonata»


GORIZIA «L’emergenza clandestini? La verità è che a Gorizia non ci facciamo più caso. Passano ogni giorno, ogni notte. Cinquanta, cento. Chi li conta più?». L’albergo di Mauro Gubana scruta la stazione Transalpina. Qui sei in Italia, oltre la recinzione in Slovenia. In questo budello d’Italia solennemente definito l’ultima frontiera Schengen, ci sono strade, palazzi, volti che - più di altri - raccontano storie di confine. È la Gorizia i cui prati ed edifici rincorrono il limite territoriale, la Gorizia che vive l’emergenza immigrati con l’indolenza di chi ha visto di tutto e trova difficile oggi stupirsi, indignarsi, forse emozionarsi. Dopotutto i clandestini del Duemila non sono quelli di vent’anni fa, quando a fuggire erano i perseguitati politici dell’Est e nelle notti echeggiava il crepitio dei kalashnikov titini. Oggi a scavalcare le reti bucherellate è un’umanità dai tanti colori, ma dalla stessa dignità. Scivolano via verso mete lontane, Germania e Francia soprattutto: sarà forse per questo che, dopotutto, è così facile tollerare, accettare.

Salcano è il confine più a Nord di Gorizia. Lungo una piccola strada sterrata, accanto alla fonderia Livarna, c’è l’utima casa goriziana dinanzi alla quale è stata divelta la rete confinaria. Ermanno Birri, 35 anni, trattiene a stento Pelo, un cane lupo ringhioso che mostra tutta la sua forza a quanti solo si avvicinano. «È di compagnia, ma all’occorrenza...», spiega. Quella casa è un insolito palco d’onore in un teatro che ha in cartellone un’unica rappresentazione: la fuga. «Avevo sei anni. Un polacco riuscì a entrare anche se gli sparavano addosso. Ci piombò in casa e chiese solo se era l’Italia di Papa Wojtyla. - spiega -. Ora è diverso. È un continuo via vai. Non danno però fastidio: hanno solo fretta di raggiungere la stazione. Non si fermano e, comunque, c’è Pelo...». Sarà una coincidenza, ma nella Gorizia confinaria non si contano le targhe, affisse ai cancelli, che annunciano la presenza del migliore amico dell’uomo.

Scendendo verso Sud c’è la Transalpina e quel piazzale che si apre a raggiera sulle vie Foscolo, Caprin, Luzzato e Percoto. Un «campo di battaglia». Al centro loro, Mauroo Gubana, la moglie Antonella e l’albergo con vista confine. «Dalle 19 è tutto un passaggio di uomini, donne e bambini. Negli anni il fenomeno è cambiato - spiegano -: prima saltavano la rete e fuggivano via. Poi hanno iniziato a salire di corsa sul primo autobus. Ora scavalcano tranquillamente e si dirigono all’adiacente stazione dei carabinieri». L’obiettivo è quel prezioso decreto di espulsione che, di fatto, per 15 giorni consente loro di vagare in Europa. Una volta si presentavano nell’albergo affamati e infreddoliti, ora viaggiano con in tasca dollari e marchi. Chiedono solo una cosa: fare una telefonata. Tutti hanno un numero da comporre.

Come sui veri «campi di battaglia», anche alla Transalpina restano i segni dei combattimenti. Qualche scatoletta segno di pasti furtivi, spiccioli di valute inutilizzabili e, soprattutto, tantissimi documenti che potrebbero servire per l’identificazione del clandestino e il suo respingimento in Slovenia. Come in un eterno carnevale, i giardini sono cosparsi di documenti tramutati in coriandoli. Ma anche di lucchetti: così si evita che scantinati e garage vengano tramutati in bivacchi. L’obiettivo dei clandestini è attendere il primo bus. «Neppure il tempo di aprire le porte - spiega Paolo Chizzolini, autista dell’Amg - e dai cespugli sbucano venti clandestini. Se non hanno già il biglietto, ti offrono marchi e dollari che non possiamo ovviamente accettare. Alcuni sono stravolti da viaggi impossibili.

Ricordo una donna: era stesa a terra, svenuta».

La stazione ferroviaria. È qui che arrivano se non vengono intercettati. Per quasi due ore godono di «immunità»: la Polfer apre solo alle 7.30 mentre il bar e gli sportelli già alle 6. «Tutta la città è un enorme centro di accoglienza», sintetizza Fabrizio Di Domenico nel cui bar approdano uomini affamati ma dai volti appagati di chi è convinto d’aver trovato l’Amerika. L’ultima tappa: la biglietteria. Marino Carrara apre le braccia sconsolato: «È un dramma. Arrivano in gruppi, spingono via gli altri utenti e pretendono in fretta biglietti e informazioni. Il dialogo è quasi impossibile e se hanno solo valuta estera li dobbiamo allontanare. Vogliono comunque salire sull’Euronight delle 6.48. La tensione sale così alle stelle. Ma oltre il vetro siamo soli».